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“Adesso tienimi”, nuova vita per l’opera prima di Flavia Piccinni

Pubblicato | da Redazione

Sono trascorsi dodici anni dall’uscita di “Adesso Tienimi” (Fazi Editore), romanzo di esordio di Flavia Piccinni, giovanissima scrittrice tarantina. Il volume torna in libreria con Terra Rossa, editore pugliese che restituisce nuova linfa ad un lavoro che nel 2007 fece discutere molto. Una decisione che l’autrice ha maturato nel tempo. “Mi sono sempre opposta nonostante le richieste – spiega a la Ringhiera – perchè cerco di essere sempre rivolta al futuro e ripubblicare quel libro mi sembrava dare una voce a qualcosa che veniva dal passato. Negli ultimi anni però sempre più lettori mi chiedevano dove avrebbero potuto trovare il romanzo e quando Giovanni Turi mi ha domandato due anni fa di ripubblicarlo ho accettato: mi sembrava giusto che tornasse alle stampe, questa storia di Puglia, con una piccola casa editrice pugliese”.

Martina, la protagonista del romanzo, è una 17enne di Taranto. Un personaggio con forti chiaroscuri che si muove sullo sfondo di una città che allora come oggi, vive una condizione di assoggettamento. “Rispetto a 12 anni fa, però – continua la Piccinni – è cambiata una cosa fondamentale: la nostra presa di coscienza. Quello che sta accadendo a Taranto, e che è una vera e propria strage di stato, riguarda tutti noi e non solo i bambini, gli adulti e gli anziani della città. Obbligare una città italiana e la sua popolazione al dover sottostare a una situazione del genere è grottesco. Adesso rispetto a 12 anni fa tutti hanno chiaro cosa stia accadendo”.

In questi anni la scrittrice non è stata ferma, anzi. Ha prodotto molto sia nel campo della saggistica che con nuovi romanzi. I suoi ultimi due lavori “Bellissime” e “Nella Setta” (entrambi con Fandango libri), sono stati anche motivo di acceso dibattito parlamentare. E per il futuro le novità non mancano. “Sono appena rientrata dal confine siriano, dove sono stata per raccogliere storie e testimonianze. Il mese prossimo uscirà il “Poster delle scrittrici e delle poetesse” che ho curato per Atlantide Edizioni con Dacia Maraini. E nei prossimi mesi arriverà al cinema anche il docufilm che Fandango ha tratto dal mio “Bellissime”. Fino a maggio sarò poi impegnata con Rai1. Intanto continuo a presentare in giro “Nella Setta”, l’inchiesta sulle organizzazioni settarie che ha dato adito a due disegni di legge e rispetto al quale stiamo lavorando ad un adattamento teatrale”.

La nuova edizione di “Adesso Tienimi” è arricchita dalla prefazione dell’autrice che vi proponiamo di seguito.

“La notte del 10 luglio 2007 non c’erano stelle, ma solo preoccupazioni e sogni. Me ne stavo sul letto in attesa dell’alba, quando Adesso tienimi – almeno secondo la romantica fantasia che all’epoca avevo del sistema editoriale – sarebbe arrivato in libreria e con lui la prima recensione importante che l’ufficio stampa, con la gentile sufficienza che si riserva ai giovani esordienti, mi aveva detto sarebbe stata pubblica-
ta su «il Venerdì» di «Repubblica».

Intorno a me, l’aria condizionata era un ronzio intermittente: ogni tanto si fermava, ricominciava sbuffando gelidi sospiri, si inceppava con un sussulto di morte definitiva, che mi consegnava ai trenta gradi della più importante estate della mia vita. Intanto, i pensieri si rincorrevano. E tra le travi in legno del soffitto continuavano a non esserci stelle, ma solo speranze. C’era la copertina di Adesso tienimi. C’erano le pagine che avevo scritto, in quel dolore straziante che non avrei più provato così lancinante e assoluto: ogni aggettivo, ogni virgola e ogni congiunzione erano stati per mesi e mesi la mia vita, tutta aggrumata in una stanza buia, la finestra sbarrata, le sigarette una dietro l’altra – esattamente come adesso, benché ogni mattina mi dica: oggi sì, oggi smetto di fumare e poi non smetto mai, perché rinunciare alle cose che fai per errore e a cui ti abitui fino a farne una dipendenza è un po’ come morire –, il pianoforte di Yann Tiersen. E poi c’era la voce che si trasformava in mantra e rosario, e rileggeva cinque, dieci, venti volte la medesima frase, fino a trovare certezza – quell’assoluta, infantile e necessaria certezza che sublima l’incoscienza
dei vent’anni, infradiciata di ingenuità e ottimismo – che quelle parole sarebbero state un libro, e che un libro sta nelle librerie, nelle biblioteche, passa di mano in mano, serve per fermare le porte e per riempire gli scaffali. E soprattutto c’era il pensare che un libro è il mondo. Perché, fino ad allora e ancora adesso, i libri erano tutto: il fruscio delle pagine, l’odore della carta, la vicinanza fra i caratteri, i suggerimenti, le risposte degli altri quando meno te lo aspetti, e soprattutto le vite stesse degli altri e le loro emozioni, che per un attimo – attimi sono, lunghissimi attimi che durano per certi versi in eterno – colonizzano la vita, e restituiscono alle cose confini inattesi, e bellissimi. Regalano la meraviglia dell’alternativa.

Per me l’alternativa aveva la forma di uno schermo e di una tastiera. Per me l’alternativa alla vita che non volevo – restare in provincia, fare il lavoro di mia madre o di mio padre, arrendermi alle aspettative borghesi e al compromesso con le ambizioni, che all’epoca erano smisurate ed eccessive, prigioni da cui ho impiegato anni a liberarmi – era la fuga. La fuga che aveva trovato la sua consistenza nel partecipare nell’anno dell’esame di maturità a dieci concorsi di scrittura, e vincerne sette fra cui il Premio Campiello, con un racconto che poi avrebbe preso forma nel mio esordio: il libro che tenete adesso fra le mani.

Ricordo ancora quando, a Venezia, la sera precedente alla premiazione, mia madre mi prese da parte: «Non vincerai mai» sentenziò, definitiva; e io pregai tutta la notte di sentire pronunciare il mio nome. La mattina dopo ero così stremata, così proiettata nel fallimento, che quasi non mi accorsi quando mi menzionarono. Per me l’unica alternativa possibile – e lo capisco solo adesso – era la storia di Martina, che era come io volevo essere stata: violenta, estrema, consumata nel gesto che non ha compromessi e pietà.

Per anni ho odiato Adesso tienimi. Ho odiato la sua schiettezza, il suo grondare umori e sapori, le parole che erano lame. Mi sentivo Martina, e allo stesso tempo non mi riconoscevo. Vedevo intorno a me Martina – che era in tutte le ragazze sofferenti, abusate psicologicamente e fisicamente, tutte quelle avvolte nel dubbio e nell’incertezza –, eppure non scorgevo l’espressione del suo viso, non trovavo i suoi occhi o il modo in cui il vento, sul lungomare di Taranto, le scompigliava i capelli. Per anni ho odiato Taranto, me
stessa perché non tornavo, la mia famiglia perché se ne era andata e i tarantini tutti. Poi sono passate le settimane, e i mesi sono diventati anni: dodici anni. Il tempo ha fiaccato gli entusiasmi, le notti insonni precedenti all’uscita di un libro si sono trasformate in qualche sospiro, ed è mutato il modo di credere nelle storie: da strumento per la fuga sono diventati mezzo per la comprensione.

Quando uscì questo libro, avevo ventuno anni. Era l’11 luglio 2007. Passai i mesi successivi a presentare il
romanzo in giro per l’Italia, a svegliarmi all’alba quando sapevo che sarebbe uscita una recensione – e a stare bene se era positiva, a stare male se non era come sperassi –, ad abituarmi a capire che un romanzo non cambia la vita a nessuno, nemmeno al suo autore, nemmeno se lo desidera più di ogni altra cosa.
Vivevo nella realtà parallela ed esaltata del giovane esordiente cresciuto in provincia, respiravo ogni giorno
l’aria asfissiante dell’Ilva.

Dopo quattro mesi dall’uscita, mi misi a letto. Ricordo che ero appena tornata da una trasmissione di Maurizio Costanzo in cui era intervenuto anche il sindaco di Taranto di allora, e ricordo che Costanzo vedendomi con la mia consueta mise dark mi disse: «Troppo nero, sei troppo giovane per tutto quel nero!». Per i successivi cinque mesi non mi alzai. Vivevo nella penombra, sfiancata dalle parole e da quel libro.
Per anni non ne ho voluto vedere neanche la copertina. In qualche modo Adesso tienimi aveva inghiottito la mia vita, e la persona che ero stata; la persona che volevo divenire. Poi Giovanni Turi mi ha domandato di restituirgli la voce con TerraRossa. E io, che mi ero sempre categoricamente opposta a qualsiasi ristampa, ho ritrovato Martina che qui incontrerete con le ingenuità, la disperazione, l’assolutezza dei suoi e dei miei vent’anni.

Ho cambiato poco, pochissimo, rispetto alla prima edizione perché avrei voluto cambiare tutto e allora sa-
rebbe stata un’altra cosa. Per qualche mese ci ho provato, a cambiare ogni parola e sentimento, poi ho rinunciato; ho abdicato alle mie paure, mi sono annullata nelle resistenze. Ho scelto di lasciare che la voce aspra e tremenda di Martina suonasse come la prima volta. Arrendersi a lei è stato difficile e necessario, come lo è provare a rimanere fedeli a se stessi. Rileggere la sua storia è stato aprire la cicatrice dell’adolescenza e dell’Ilva, che qui sopravvive com’era a metà degli anni Duemila, quando i balconi si spolveravano di rosso, non esistevano i wind days, non si parlava che sporadicamente del registro
tumori e dell’inquinamento; la fabbrica era una realtà che nessuno e niente avrebbero potuto mettere in discussione, la mia famiglia non contava ancora morti di cancro, e il patetico e inaccettabile binomio “salute o lavoro” era uno slogan scritto in via Crispi, accanto a uno stampatello sbilenco che recitava “la vostra indifferenza vi uccide”.

Da allora è passato molto tempo, ma ancora oggi, soprattutto oggi, Adesso tienimi per me è uno strappo e un sogno, condensato e battezzato in un luglio di un’epoca fa. Distante appena dodici anni. Distante, forse, soltanto una vita”.